Il soggiorno obbligato
La disabilità fra dispositivi di incapacitazione e strategie di emancipazione
Questo volume nasce da una ricerca collettiva finalizzata a elaborare strumenti analitici e operativi per la prevenzione e il contrasto dei processi di istituzionalizzazione che coinvolgono le persone con disabilità in Italia, soprattutto con l'incedere dell'età. L'Italia, infatti, nonostante si sia contraddistinta in epoca repubblicana per la critica pragmatica delle logiche di apartheid e relegazione (con l'abolizione delle classi differenziali, la soppressione del manicomio civile e la dismissione dell'ospedale psichiatrico-giudiziario), presenta ancora solidi grumi di resistenza nel superare definitivamente la cultura della segregazione. Ciò in controtendenza con la cultura giuridica che, a inizio del XXI secolo, si è cristallizzata nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, resa possibile dalle teorie e dalle pratiche critiche elaborate negli anni dal Disability Rights Movement. Cardini di questi nuovi codici culturali e di questo nuovo ordine normativo sono il principio per cui in nessun caso la condizione di disabilità può giustificare la privazione della libertà personale e il correlato riconoscimento del diritto di vivere nella società con libertà di scelta, inclusa la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere, senza l'obbligo di vivere in una sistemazione particolare. In un momento di fermento legislativo, questa ricerca, che è stata condotta da studiosi e professionisti provenienti da diversi campi del sapere – sociologia, social work, diritto, psichiatria, pedagogia, filosofia, antropologia –, propone allora un quadro dei modi di persistenza dei dispositivi di incapacitazione delle persone con disabilità e dello strumentario disponibile per la loro emancipazione.
I CAPITOLI
DOI | 10.1401/9788815412584/p1
Nota editoriale
Volume realizzato nell’ambito del progetto Equal. Studio per l’attuazione dell’uguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà personale e di scelta delle altre persone, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento per le politiche in favore delle persone con disabilità. I punti di vista e le opinioni espresse nella presente pubblicazione sono solo quelli degli autori e non riflettono in alcun modo l’indirizzo o la posizione della Presidenza del Consiglio dei ministri....
Pagine | 2 - 2
DOI | 10.1401/9788815412584/p2
Prologo
Il mormorio insistente della somiglianza. Elementi di tropologia giuridica
Questo volume presenta parte dei dati raccolti e delle analisi elaborate nell’ambito del programma di ricerca Equal. Studio per l’attuazione dell’uguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà personale e di scelta delle altre persone, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Ufficio per le politiche in favore delle persone con disabilità (oggi Dipartimento per le politiche in favore delle persone con disabilità), all’esito di un avviso esplorativo, emanato nel maggio 2021, finalizzato all’acquisizione di manifestazioni di interesse per la realizzazione di uno studio concernente il contrasto alle forme di istituzionalizzazione delle persone con disabilità, in attuazione dell’articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) [1] . Lo studio faceva parte di una serie di altre ricerche, promosse contestualmente su proposta dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle...
Pagine | 9 - 24
DOI | 10.1401/9788815412584/p3
Ringraziamenti
Questo libro nasce da un’esperienza di ricerca collettiva. La redazione dei testi è stata discussa e predisposta dalle diverse unità di ricerca, mentre la stesura dei capitoli è stata realizzata dagli autori indicati nei singoli contributi. Si ringraziano le istituzioni e gli enti di afferenza delle unità di ricerca e dei singoli estensori: Università di Bologna; Università degli Studi di Cagliari; Università della Calabria; Università degli Studi di Ferrara; Università degli Studi di Firenze; Università degli Studi di Milano-Bicocca; Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa; Università degli Studi di Perugia; Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Università di Torino; Università di Trento; AUSL di Modena – Dipartimento di Salute mentale e Dipendenze patologiche; Azienda Sanitaria universitaria Giuliano Isontina – Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment – Council of Europe;...
Pagine | 29 - 30
DOI | 10.1401/9788815412584/c1
Matteo Schianchi e
Massimiliano Verga
Storia di Moreno. Le biografie e i rischi di riproduzione delle diseguaglianze
Dalla «prima comunicazione» al «Dopo di noi», le traiettorie esistenziali delle persone con disabilità attraversano alcuni passaggi cruciali che ne definiscono la direzione e non di rado conducono a un abitare involontario e contrario alle prospettive di una vita indipendente, così come previsto all’articolo 19 della Convenzione ONU del 2006. Il problema che ci si pone è duplice. Come pensare e concepire la biografia di una persona con una disabilità complessa e come raccontarla. Le due questioni, si intersecano e partono dal fatto che la biografia di una persona con disabilità che non può raccontarsi è inevitabilmente una narrazione frutto di parole di altri. L’ombrello della scuola dell’obbligo, per quanto bucato, comunque ripara. A prescindere dalle riflessioni e dalle scelte effettuate in merito al percorso scolastico, dalla prima elementare fino ai sedici anni, la persona con disabilità non è in carico solamente alla famiglia. Come è facile intuire, se questo passaggio in molti casi non risulta indolore anche a prescindere dalla presenza di una disabilità, sicuramente rappresenta uno snodo critico per lo/la studente con disabilità. Occorre partire da un punto fermo: queste riflessioni intersecano la biografia di un ragazzo che non ha ancora vent’anni e di due genitori che hanno appena superato la boa dei cinquanta. Con ogni probabilità, se Moreno oggi avesse il doppio degli anni (e i suoi genitori avessero vent’anni in più), troverebbero spazio altre riflessioni e altre (in)certezze. I percorsi verso il «dopo» debbano prevalentemente restare nelle mani dei capitali individuali e familiari e che la mano pubblica debba intervenire solamente se questi vengono meno, con evidenti margini di rischio nella definizione delle traiettorie esistenziali delle persone con disabilità.
Pagine | 33 - 57
DOI | 10.1401/9788815412584/c2
Natascia Curto
Storia di Anna che cammina strano
La famiglia di Anna abita in una piccola città collinare nel Nord-Ovest. Gli abitanti, poco meno di seimila, sono prevalentemente piccoli imprenditori del settore agricolo. Anna nasce quando i genitori sono sposati da poco, frequenta le scuole prima nel suo paese poi, per le superiori, in una cittadina vicina, ma non riesce mai a circondarsi di relazioni significative. Anna compie 21 anni e le viene assegnata un’educatrice nell’ambito di un progetto di «vita indipendente» promosso dal suo Comune di residenza. Il lavoro educativo si concentra sulle autonomie: Anna trascorre con l’educatrice due pomeriggi alla settimana in cui programma come fare la spesa, impara a preparare semplici pasti e a vestirsi in modo adatto alla temperatura esterna, riordina la sua stanza e a volte stira. Uno degli elementi da cui scaturiscono continui litigi è che la famiglia di Anna non ha i mezzi per pagarle un affitto o comprarle una casa. Questo, da una parte, li scoraggia riguardo alla possibilità per Anna di uscire dalla casa familiare, dall’altra fa sì che spesso si parli della ricerca di un lavoro come l’evento che farà accadere tutto il resto. Inoltre, Anna desidera una vacanza con gli amici, non da sola: quello che la affascina dei racconti delle colleghe sono gli incontri, i ragazzi americani conosciuti al lido, le amiche di ombrellone, le serate con le feste in spiaggia. È in occasione di quella vacanza che conosce Alberto, un ragazzo che abita in un altro paese della sua Regione. Anna e Alberto iniziano a sentirsi, si trovano sempre meglio. Lui la va a trovare nel paesino dove abita e dopo poco tempo si mettono insieme. Uno degli elementi che inizialmente blocca l’effettivo andare a convivere è il fatto che nessuno dei due riesce a trovare lavoro. L’infrastruttura del loro abitare insieme è l’abitare stesso non la relazione di coppia, abitare che si configura come una delle possibili combinazioni luogo-livello di controllo che le persone che concedono loro la libertà hanno a disposizione.
Pagine | 59 - 74
DOI | 10.1401/9788815412584/c3
Cecilia Maria Marchisio
Storia di Marco che non sta fermo
Cresciuto in una piccola città sul mare, fino ai 19 anni Marco frequenta senza particolari problemi i contesti tipici dei ragazzi della sua età. la famiglia di Marco viene sconvolta dalla prematura morte del padre, che manca improvvisamente proprio a ridosso della fine dell’anno scolastico. Marco, intanto, prosegue la frequenza al Centro e sta sempre peggio. Mentre le diagnosi si aggiungono, Marco continua a dire di cosa sente di aver bisogno: vuole traslocare, vuole andare via dalla loro casa e dalla loro città. Nella nuova città, dunque, non viene ritenuto opportuno che Marco frequenti luoghi di tutti, incontri persone, si costruisca una quotidianità da giovane adulto. Inizia così un anno molto difficile. I nuovi educatori lavorano con professionalità e dedizione, cooperando con la mamma, affinché Marco ricostruisca una quotidianità piena. Gradualmente e lentissimamente si passa da qualche minuto senza mamma (magari nascosta dietro una colonna al centro commerciale) a qualche ora, sempre nei luoghi di tutti: bar, strade, pizzerie. Fino ad arrivare a giornate intere ricche di incontri e impegni che Marco affronta serenamente senza Agata. Marco oggi ha trent’anni e vive nella sua cittadina. Lui e la madre abitano lì da otto anni e Marco è conosciuto da tutti. Il progetto personalizzato con cui è sostenuto prevede un intenso lavoro sul contesto. La battaglia di Agata e Marco non si è fermata nel punto dove si ferma questa storia. La famiglia è sempre rimasta in contatto con il gruppo di ricerca e si è mantenuto costante lo scambio.
Pagine | 77 - 91
DOI | 10.1401/9788815412584/c4
Virginia De Silva
Storia di Daniel che non è in un Paese per giovani
Daniel è un giovane uomo che vive in una RSA dal 2011. Questa brevissima frase sintetizza in maniera densa l’ossimoro stridente che caratterizza la sua vita e condensa tutti i paradossi e le aporie di una società nella quale il welfare è ancora un concetto che ha poco a che fare con l’autodeterminazione e la capacità di essere e di aspirare dell’individuo/persona. Il punto zero, conditio sine qua non, può essere certamente rintracciato nel grave incidente di cui Daniel è stato protagonista e che gli causerà una gravissima lesione spinale con perdita di consistenti funzionalità motorie. Il fratello è arrivato in Italia al momento dell’accaduto e ha aiutato Daniel nei primi mesi dopo l’uscita dall’ospedale. Gli amici e il coinvolgimento del Terzo settore, in questo caso la Caritas, hanno permesso a Daniel di trovare una sistemazione e questo è indice di quanto la rete amicale e quella sociale delle associazioni, del volontariato siano importanti e di sostegno. Daniel mette in atto la propria agency attraverso forme di riappropriazione del sé e del proprio tempo, dedicandosi alle attività pomeridiane che sono le attività da lui scelte e non prescritte. L’approccio emergenziale e non progettuale alle crisi e una incapacità e impossibilità dei Servizi territoriali – proprio per come sono stati intrinsecamente pensati – di plasmarsi sui desideri e le aspirazioni delle persone, oltre che sui bisogni assistenziali, restringono la costellazione immaginativa e praticabile del futuro di Daniel. Una macchinosa burocrazia, fatta di cavilli, misurazioni, valutazioni, non permette a Daniel di accedere ai finanziamenti per i progetti sperimentali di vivere in autonomia.
Pagine | 93 - 108
DOI | 10.1401/9788815412584/c5
Lavinia D’Errico
Storie di ordinaria vecchiaia
Da ogni porta aperta, al mio passaggio, si sollevano teste bianche e sguardi acquosi; molte carrozzine disposte in cerchio, nelle sale comuni, come un mesto girotondo. T. racconta di un sistema, a suo dire diffuso, di raccomandazioni per poter ottenere una stabilità lavorativa, il suo racconto è forse frutto di una modalità familiare di intendere e interpretare questo aspetto; comunque, nel sistema educativo familiare, il volere dei genitori sembra aver prevaricato il suo desiderio d’indipendenza. Alla morte dei suoi genitori, non avendo un lavoro, T. non ha possibilità di mantenere la casa. Nel frattempo aveva cominciato la frequentazione con un uomo, conosciuto perché faceva parte della rete parentale. Lui è un uomo in difficoltà, che aveva precedentemente tentato il suicidio per una donna. Quando viene ricoverato in ospedale per due mesi e curato per un disturbo bipolare, T. gli sta vicino. Intorno ai sessant’anni T. comincia ad avere crisi di panico. A sessantatré anni T. arriva nella struttura. Sono trascorsi 17 anni: «sapevo che era una struttura, ma non che fosse il mendicicomio, mi dicono: vedrai, è bello, ti troverai bene». A. è in pigiama, ha il viso largo, i capelli corti e candidi, lo sguardo dolce, appare serena. A dodici anni A. comincia a lavorare in campagna, zappa la terra. Il marito viene a mancare nel 2011 per un infarto sopraggiunto dopo un intervento chirurgico. M. ha ottantadue anni, è sulla carrozzina, tutta coperta. Vive qui con suo figlio, che di anni ne ha cinquantaquattro, da sette mesi. All’età di ventiquattro anni, M. conosce l’uomo che diventerà suo marito dopo due anni di fidanzamento. Qui la vita che raccontano scorre ogni giorno uguale: «prima mi facevano camminare, ora non più e sto così», dice M. alludendo al fatto che sta seduta in carrozzina.
Pagine | 111 - 130
DOI | 10.1401/9788815412584/c6
Giovanni Pizza
Postilla. All’ombra delle parole. Nota metodologica sulle storie di vita
Una delle metodologie di analisi dell’antropologia sociale e culturale più note è la storia di vita cioè la fonte orale e/o autobiografica he, come sostenuto anche da Stefano Montes [Montes 2019], contiene il segno di una divergenza etnografica, vera e propria schismogenesi tra l’antropologo/a e la voce narrante raccolta, un’autentica frontiera che la storia di vita riesce a oltrepassare recandone traccia. Coniugare alla vita la conoscenza vuol dire provarsi a effettuare una congiunzione di limite. Ma per farlo occorre chiarirsi bene le idee soprattutto sul concetto di vita.Dal punto di vista dell’antropologia medica e delle sue metodologie operative è urgente affrontare oggi quella che Bruce Kapferer ha definito la «grande svolta individualista dell’antropologia» [Kapferer 2005, 2]. Altrimenti si rischia di produrre un clamoroso ribaltamento, di causare una chiusura comunicativa, notturna, dell’intimità, favorendo il declino della natura umana.
Pagine | 131 - 134
DOI | 10.1401/9788815412584/c7
Ciro Pizzo
Sociogramma della residenzialità in Italia
La residenzialità in Italia, cioè l’insieme dei servizi di ospitalità assistita con pernottamento erogati in strutture socio-assistenziali e socio-sanitarie pubbliche e private, rappresenta sicuramente un elemento rilevante del panorama complessivo dei servizi alla persona. L’analisi dei dati che viene qui proposta prende le mosse dalla dimensione quantitativa del fenomeno. Il primo dato che risalta è la forte disomogeneità rispetto alla numerosità e alla distribuzione territoriale dei Presidi residenziali in assoluto. Se cominciamo l’analisi dalla popolazione minorile, va subito evidenziato che i dati per questa specifica popolazione vengono qui presentati in forma aggregata per Ripartizione geografica. Per quel che riguarda la popolazione adulta, i dati che vengono presentati aggregano gli adulti con disabilità e gli adulti con patologia psichiatrica, andando così a focalizzare l’attenzione su quella popolazione che nel suo complesso con più probabilità accede ai servizi socio-assistenziali e socio-sanitari all’interno della macrocategoria degli adulti presa nel suo complesso. La categoria più rappresentata nei Presidi è sicuramente quella degli anziani. La fotografia che fin qui si è restituita della residenzialità in Italia per le persone con disabilità si fonda su un’impostazione che mette al centro i Servizi piuttosto che le persone. Un problema che sta emergendo con forza negli ultimi anni è quello della possibile sovrapposizione e confusione delle categorie di disabilità e di non autosufficienza, in parte probabilmente dovute anche al peso dei numeri della non autosufficienza e da questo assorbimento della categoria di disabilità in quella di anzianità, alla soglia dei 65 anni di età. L’età e l’invecchiamento, come esposizione al rischio della moltiplicazione di limitazioni, si trasforma così in un sistema di progressiva creazione di una popolazione a rischio di non autosufficienza. Il sistema dovrà sì raccogliere informazioni sui servizi presenti sul territorio, ma integrare tale dato con il monitoraggio di tutte le azioni volte alla promozione e all’implementazione della vita indipendente delle persone con disabilità.
Pagine | 139 - 194
DOI | 10.1401/9788815412584/c8
Nicola Vanacore
L’istituzionalizzazione impropria delle persone con demenza: tentativo di caratterizzazione di un fenomeno complesso
In Italia esiste una criticità a tracciare in un flusso nazionale le strutture residenziali e semiresidenziali e i relativi ospiti in quanto diverse sono le denominazioni adottate dalle singole Regioni e Province Autonome differenti sono le funzioni di tipo sanitario e sociale. Secondo il report dell’ISTAT del 21 novembre del 2022, in Italia, al 31 dicembre 2020 sono 12.630 i presidi residenziali attivi con un’offerta di circa 412 mila posti letto, sette ogni 1.000 persone residenti. Le unità socio-sanitarie assistono prevalentemente utenti anziani non autosufficienti, destinando a questa categoria di ospiti il 75% dei posti letto disponibili, mentre agli anziani autosufficienti e alle persone con disabilità sono destinati, rispettivamente, il 9% e il 7% dei posti letto. La carenza in Italia di un sistema informativo integrato sociosanitario delle strutture residenziali impedisce di rilevare con esattezza le presenza delle persone con demenza in questo setting assistenziale. In particolare, questo flusso informativo delle prestazioni residenziali e semiresidenziali (flusso FAR), inserito all’interno del Nuovo Sistema Informativo Nazionale (NSIS), prevede nel tracciato record relativo alla caratterizzazione della prestazione una valutazione dell’area cognitiva e dei disturbi comportamentali dell’assistito.
Pagine | 197 - 204
DOI | 10.1401/9788815412584/c9
Daniele Piccione
Effettività della libertà personale, suoi determinanti sociali e condizione di disabilità. Una prospettiva costituzionale per lo studio della libertà delle persone con disabilità
Lo statuto di protezione della libertà personale negli ordinamenti costituzionali segue l’evoluzione delle forme di Stato. Si tratta, infatti, di questione che incrocia i temi più complessi dei rapporti tra governanti e governati. Le ragioni, per cui lo studio unitario delle questioni costituzionalistiche poste dall’effettiva tutela della libertà personale nel nostro ordinamento si sono rarefatte, appaiono molteplici. Limitandosi alla prospettiva costituzionalistica vi è preliminarmente da domandarsi se sia ancora attuale il dibattito sulla struttura giuridica dell’articolo 13 Cost., per come ha attraversato l’epoca repubblicana. Di notevole ausilio, anche a fini concreti e applicativi per lo studio della libertà personale con particolare riferimento alla condizione di disabilità, è un approdo della dottrina costituzionalistica europea. Pur diffusa in dottrina e autorevolmente sostenuta, la tesi per cui le misure restrittive della libertà personale potrebbero essere introdotte dalla legge soltanto per perseguire finalità predeterminate in Costituzione, non ha trovato diretto accoglimento in giurisprudenza. Per la libertà personale è certamente valida l’affermazione per cui il suo statuto vive di una penombra di indeterminato. Ne discende che lo studio delle dinamiche che trovano spazio nei luoghi dove si sviluppano i trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori e volontari, nonché nelle circostanze in cui si presta assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, schiude profili problematici sui quali la giurisprudenza costituzionale non ha sino ad ora trovato campi e ambiti di intervento diretto. L’articolo 19 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità offre un’analitica disciplina del diritto a condurre una vita indipendente. Lo studio dei determinanti sociali della libertà personale consente di coglierne a fondo le effettive dinamiche di tutela nell’ordinamento e i complessi rapporti di interrelazione con le altre situazioni giuridiche soggettive garantite dallo Stato costituzionale di diritto.
Pagine | 209 - 236
DOI | 10.1401/9788815412584/c10
Emilio Santoro
Riannodare i fili: libertà, dignità e autonomia
La scelta personalistica ha rappresentato una rottura che solo ora e lentamente sta mostrando il suo impatto su approcci consolidati ai problemi sociali e che la configurazione dello status delle persone con disabilità e dei loro diritti rappresenta un problema di frontiera nella nuova configurazione del welfare. La loro concezione mette in luce il confine tra vecchio modello liberale e il nuovo modello personalistico. Il punto di partenza, in quanto rappresentativo della concezione antropologica liberale classica, è certamente la disposizione costituzionale sull’«inabilità». Nello Stato moderno, per rendere «governabili» gli individui, si sviluppano due diversi tipi di discorso «oggettivante» i soggetti: da una parte il discorso che forgia il modello antropologico dell’individuo capace di perseguire i propri interessi razionalmente, programmando autonomamente la propria vita; dall’altra quello che dà vita al modello antropologico dell’individuo incapace di far fronte da solo a problemi come la salute, l’igiene, la sessualità, l’educazione, la sofferenza e la morte. L’eccessiva valorizzazione di un concetto etero-definito di dignità, l’adozione di un’impostazione rigorosamente kantiana, che fa divieto anche al singolo individuo di abdicare la dignità che è in lui, crea una tensione con il principio di libertà. Oggi la concezione liberale dell’individuo e quella kantiana del binomio dignità-autonomia, con la normatività che presuppongono, appaiono ancora molto forti ma sempre più insoddisfacenti e in via di superamento, senza però che emerga un chiaro paradigma che le sostituisca. Il piano di vita si configuri, una volta elaborato, non come una camicia di forza che ingabbia la persona, ma come uno strumento in continua evoluzione, continuamente modificabile a seconda del variare delle condizioni sociali e personali del soggetto la cui vita traccia.
Pagine | 239 - 258
DOI | 10.1401/9788815412584/c11
Orsetta Giolo
Libertà: contesto, scelta e relazione
L’affermazione e l’ampliamento progressivo delle libertà fondamentali hanno condotto, dalla fine del Settecento in poi, a notevoli mutamenti nel modo di intendere la soggettività, l’autonomia, la responsabilità, le relazioni, sia in ambito pubblico sia in quello privato. Ma, paradossalmente, all’interno delle medesime società, sono in corso imponenti processi contrari. Durante la gestione della pandemia da COVID-19, simili tendenze si sono acuite e per certi versi generalizzate. A fronte dell’esaltazione retorica della libertà, pertanto, l’articolazione concreta di quest’ultima è oggi in preda a ideologie contrarie, interessate al controllo massiccio e costante delle popolazioni. Nella rappresentazione classica della libertà, il contesto, in cui il soggetto qualificato come libero agisce, non è descritto ma è presupposto. L’antropologia sottostante i diritti civili assume infatti come soggetto paradigmatico l’uomo bianco e benestante. Il neoliberalismo si inserisce in questo percorso distorcendolo, radicalizzando il nesso libertà-soggetto e rimuovendo nuovamente il contesto. La libertà è così intesa non più quale principio che determina l’assenza di forme di assoggettamento alla volontà altrui, ma come mera espressione della propria autonomia, ovvero della propria «libertà di scelta». Nella rappresentazione classica della libertà, il soggetto definito libero è colui che non è nella disponibilità di altri. L’elaborazione delle strategie contemporanee dell’emancipazione dalle forme neoliberali di asservimento, sfruttamento, segregazione e controllo passa necessariamente dalla redistribuzione (pubblica e privata) delle responsabilità.
Pagine | 261 - 271
DOI | 10.1401/9788815412584/c12
Daniele Amoroso
La posizione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nell’ordinamento italiano
L’Italia ha giocato un ruolo tutt’altro che marginale nel processo che ha portato all’adozione, nel 2006, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, in quanto trattato, spiega naturalmente i suoi effetti nell’ordinamento di origine, vale a dire quello internazionale. Benché il diritto internazionale non pretenda, se non in casi specifici, di essere recepito nel diritto statale, quasi tutti gli ordinamenti nazionali – incluso quello italiano – prevedono meccanismi di adattamento. La circostanza che tanto l’Unione europea, quanto l’Italia (che ne è membro) siano parti del medesimo trattato non deve stupire. Nonostante i numerosi rinvii alla Convenzione che popolano l’ordinamento italiano, il fondamento della sua efficacia interna va rinvenuto nell’ordine di esecuzione di cui alla legge n.18/2009. Per la Corte, in altri termini, l’entrata in vigore della Convenzione, e dunque la sua introduzione nell’ordinamento italiano mediante ordine di esecuzione, avrebbe innovato il quadro giuridico nazionale arricchendolo di principi e norme senz’altro suscettibili di avere un impatto sulla disciplina interna. L’approccio restrittivo adottato dalla Consulta in merito alla natura non autoapplicativa della Convenzione è in parte controbilanciato dalla giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi. A differenza di quanto avviene per le disposizioni della Convenzione, che sono oggetto di numerosi richiami e (talora) di analisi abbastanza approfondite, non è dato rinvenire nella giurisprudenza italiana alcun riferimento alla prassi del Comitato sui diritti delle persone con disabilità. Questa proficua interazione con la Convenzione potrebbe essere ulteriormente rafforzata se i giudici italiani «tenessero conto», nel senso indicato nel par. 5, della ricca prassi interpretativa del Comitato sui diritti delle persone con disabilità.
Pagine | 275 - 301
DOI | 10.1401/9788815412584/c13
Benedetto Saraceno
Istituzioni totali e de-istituzionalizzazione
Si parla di riabilitazione, di cura, di diritti, ma non si parla mai dei «dove» si compiono queste pratiche e dove si inverino questi diritti. Come se ospedale, carcere, Residenza per anziani, Istituto per disabili intellettivi fossero luoghi metafisici, dati una volta per tutte, ovvi, e di cui non valga la pena, pena appunto la ovvietà, di dar conto. Il paradigma dell’ospedale psichiatrico è stato certamente quello più studiato e, soprattutto, quello più messo in reale e concreta crisi da esperienze pratiche di critica e di pratiche alternative. La critica al manicomio come luogo disumano e antiterapeutico, se non assume che tali connotazioni non sono solo del manicomio ma anche dell’ideologia psichiatrica (di cui il manicomio è il prodotto), si tradurrà semplicemente in creazione di altri scenari per l’esercizio della medesima ideologia psichiatrica. Questa lettura dell’istituzione non solo come luogo fisico e concreto ma come ideologia è simile per tutte le istituzioni totali. Dunque, la questione è quella dell’intrattenimento operato dalla psichiatria in questo unico spazio a una sola dimensione, che può essere il manicomio così come qualunque istituzione. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) è stata adottata nel 2006 e ha cominciato a essere applicata nel 2008. L’articolo 12 della Convenzione afferma in una riga un principio radicalmente innovativo quando stabilisce che «l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà». In altre parole, nessuno può essere sottoposto ad alcuna misura coercitiva della libertà soltanto in quanto portatore di una disabilità mentale o fisica. È proprio grazie alla Convenzione che l’etichetta dei diritti umani affermati con insopportabile retorica e al tempo stesso violati dalle istituzioni per disabili, cessa finalmente di essere una piccola etica, etichetta del ben comportarsi in società, per inverarsi in Etica pratica. La conoscenza e la rigorosa applicazione della Convenzioni delle Nazioni Unite non è dunque un optional internazionale ma un dovere nazionale.
Pagine | 305 - 319
DOI | 10.1401/9788815412584/c14
Christian Loda
Il CPT e la questione del collocamento nelle residenze socio-assistenziali
L’entrata in vigore della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CEPT), avvenuta il 1° febbraio 1989, ha segnato l’inizio di una nuova fase della lotta contro la tortura. Come osservato in precedenza, durante le sue visite il CPT segue generalmente una metodologia molto standardizzata, che lascia poco spazio all’improvvisazione e alle variazioni. Nel contesto specifico di una struttura socio-sanitaria a carattere residenziale, si dovrebbe innanzitutto valutare se l’istituzione rientra effettivamente nel suo mandato e ospita persone private de jure o de facto della libertà. Il CPT ritiene che il collocamento e il soggiorno involontario dei residenti nelle strutture socioassistenziali a carattere residenziale debbano essere regolati dalla legge e accompagnati da adeguate garanzie giuridiche. Una volta accolti in una struttura socio-sanitaria a carattere residenziale, sia con procedura involontaria che volontaria, i residenti dovrebbero, secondo il Comitato, godere di un’ampia gamma di tutele giuridiche. In particolare, il CPT attribuisce grande importanza alla necessità di garantire che i residenti siano informati dei loro diritti e delle possibilità di presentare reclami formali. Il CPT visita sempre più spesso strutture socio-assistenziali a carattere residenziale e case di riposo. Data la sua attenzione alla qualità dell’assistenza e all’ambiente terapeutico, è naturale che il CPT desideri estenderla anche a contesti non tradizionali in cui il collocamento, il trattamento e il comportamento possono costituire un maltrattamento delle persone vulnerabili che vi risiedono. Anche se il quadro giuridico è orientato verso la de-istituzionalizzazione, la realtà concreta potrebbe essere diversa, in quanto la transizione verso unità di cura di comunità più piccole richiede sforzi coerenti e vigorosi da parte delle autorità nazionali in tutta la gamma del mandato del CPT.
Pagine | 321 - 337
DOI | 10.1401/9788815412584/c15
Maria Giulia Bernardini
La capacità legale universale come requisito indefettibile della libertà. Notazioni teoriche in un’ottica di riforma
Il diritto delle persone con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà personale e di scelta degli altri individui trova pieno riconoscimento all’interno della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD). L’articolo 12 non costituisce solo lo standard internazionale in tema di capacità legale al quale gli Stati che hanno ratificato la CRPD sono tenuti a garantire la propria piena conformità. Il suo rilievo si estende anche al piano teorico. All’interno della CRPD, l’articolo 12 è indubbiamente la previsione normativa che più ha richiamato l’attenzione della dottrina, soprattutto internazionale. Ciò dipende in primo luogo dal fondamentale rilievo assunto dal mutamento di paradigma in esso accolto in relazione alla capacità, i cui effetti sono apprezzabili sia sul piano teorico, sia su quello normativo. Nel nuovo paradigma, il diritto è chiamato a interferire nella sfera di azione del soggetto non più in chiave «contenitiva», ma al fine di garantirne la libertà e di promuoverne l’autonomia. L’attitudine trasformativa dell’articolo 12 CRPD lo rende di difficile implementazione, in quanto fissa standard molto esigenti. Riconoscere nella capacità legale un diritto universale implica che ogni persona sia titolare del diritto di effettuare le scelte che la riguardano e agire conseguentemente, secondo la propria volontà e preferenze. In questa prospettiva, interessanti sollecitazioni provengono anche dall’ordinamento italiano, ove la giurisprudenza, oltre a muovere nella direzione del superamento del binarismo tra capacità e incapacità che si è già avuto modo di ricordare, ha rimarcato anche la particolare pregnanza assunta dall’audizione della persona interessata nel procedimento diretto all’attivazione dell’amministrazione di sostegno. Al contempo, va rimarcato come sia proprio la portata precettiva dell’articolo 12 a rivelare l’indefettibilità, oltre che l’urgenza, di procedere a quegli interventi normativi, tanto di carattere riformista quanto di tipo abolizionista, che consentano di dare concreta attuazione al diritto umano alla capacità legale universale.
Pagine | 343 - 365
DOI | 10.1401/9788815412584/c16
Diana Genovese
Competenze e limiti delle figure di sostegno e del giudice tutelare
Il momento storico che i sistemi di welfare stanno attraversando vede l’affermarsi e il diffondersi di un nuovo approccio culturale, fondato sulla partecipazione attiva della persona con disabilità (e della sua famiglia) alla realizzazione dei servizi sociali e sanitari che la riguardano; in questo processo la personalizzazione degli interventi assume una rilevanza centrale. Una delle questioni fondamentali nelle strategie di personalizzazione dei servizi di welfare è come transitare da una dimensione sperimentale a un cambiamento che abbracci tutto il sistema dei servizi e interventi socio-sanitari. Per un’effettiva diffusione e sistematizzazione di questa pratica è stato necessario affrontare una pluralità di questioni che rivestono una particolare importanza: le modalità con cui vengono garantite le risposte alle esigenze di carattere abilitativo, riabilitativo o assistenziale; le strategie per gestire gli aspetti di sostenibilità economica; lo sviluppo di coerenti strumenti amministrativi e professionali; i sistemi informativi e le metodologie di valutazione dei risultati in termini di attivazione di risorse e contesti attorno alla persona che portano a una vita di qualità. È necessario ripensare i sistemi di accreditamento quando si tratta di realizzare interventi che non hanno la caratteristica della risposta meramente tecnica, ma si configurano come realtà che si integrano nei percorsi esistenziali delle persone e che anzi devono sostenerli nel loro potenziale di sviluppo. È possibile affermare, in conclusione, che «Abitare inclusivo» ha permesso con chiarezza di comprendere quali siano le direzioni verso cui avviarsi e su quali livelli agire per dare azione a quanto viene chiesto dalle norme nazionali e internazionali. È necessario sviluppare una governance multilivello, che sia in grado di attivare politiche basate sulla conoscenza del territorio.
Pagine | 371 - 410
DOI | 10.1401/9788815412584/c17
Paolo Addis
Paternalismo giuridico e condizione giuridica delle persone con disabilità
La condizione giuridica delle persone con disabilità è stata a lungo caratterizzata prevalentemente da logiche di carattere escludente e incapacitante. Per chi si occupa della questione dal punto di vista giuridico – e in particolare dal versante costituzionale – tanto la necessità di integrare, quanto quella di includere le persone con disabilità discendono direttamente dalla precettività dei principi e dei valori contenuti nella carta repubblicana del 1948. Le nozioni di paternalismo e di antipaternalismo sono state elaborate in campo filosofico-giuridico. È necessario osservare che la nozione di paternalismo è sorta e si è sviluppata compiutamente in un ambito assiologico e politico come quello anglosassone, di stampo liberale, tendenzialmente poco incline ad ammettere una legittimazione della compressione della libertà dell’individuo. un atteggiamento paternalista nei confronti delle persone con disabilità sia stato per molto tempo un tratto ricorrente dell’atteggiarsi degli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale, e sia stato considerato quale conseguenza fisiologica dell’adozione del modello medico della disabilità. Le istanze antipaternalistiche moderate qui illustrate, riconducibili all’articolo 19 della Convenzione ONU, potrebbero poi essere estese a ulteriori contesti istituzionalizzanti; si pensi, ad esempio, alla potenziale rilevanza, ancora non particolarmente approfondita dalla letteratura giuridica, derivante dall’applicazione del diritto alla vita indipendente alle persone anziane che fruiscano di servizi di Long-Term Care (LTC). Ritornando sul versante dei diritti delle persone, va evidenziato, in conclusione, che un antipaternalismo costituzionalmente orientato vive nei diritti e si alimenta dei diritti stessi.
Pagine | 413 - 432
DOI | 10.1401/9788815412584/c18
Fabrizio Magani e Giovanni
Merlo
Bloccati dalle procedure
Le unità di offerta socio-assistenziali e socio-sanitarie lombarde per le persone con disabilità trovano la giustificazione della loro esistenza in una serie di delibere approvate tra il 2004 e il 2008 dalla Giunta Regionale. Queste norme sono tutte ispirate dal principio che alle persone «prese in carico» dal sistema dei servizi debba essere garantito un buon livello di assistenza e di cura. Nei vent’anni che abbiamo alle spalle si è quindi affermata l’idea che la risposta ai bisogni – e quindi anche ai diritti – delle persone con disabilità che richiedono un forte sostegno potesse trovarsi, oltre che nella famiglia, in servizi sempre più specializzati e dedicati. Il modello di welfare sociale italiano per la disabilità ha un carattere che è possibile definire iper-familista. Infatti, la grande parte delle misure di sostegno per le persone con disabilità, siano esse in forma di servizio o di erogazione monetaria, sono giustificate con il fine di «mantenere la persona con disabilità al suo domicilio». Un legame che non si limita alla convivenza ma che è connesso alla dipendenza della persona con disabilità dalle risorse e dall’assistenza fornitagli dai suoi familiari. Oggi però viviamo un’epoca che sta cercando di parlare un linguaggio nuovo. A distanza di molti anni dalla ratifica della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità da parte dello Stato italiano, sono state approvate due norme significative che cercano di garantire il rispetto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità. Gli enti gestori di questi nuovi servizi residenziali potrebbero e dovrebbero essere sfidati (e messi nella condizione di farlo) a utilizzare risorse e competenze a promuovere l’inclusione, ovvero alla partecipazione alla vita sociale al di fuori della struttura, garantendo la continuità di relazioni e di legami con familiari e persone significative del proprio contesto di provenienza e la partecipazione alla vita sociale e la relazione con persone diverse da quelle che vivono e lavorano nella struttura.
Pagine | 435 - 445
DOI | 10.1401/9788815412584/c19
Luca Fazzi
Il maltrattamento invisibile degli anziani e dei disabili nelle RSA tra quotidianità e normalizzazione
Le persone ricoverate in strutture residenziali tra anziani non autosufficienti e disabili che necessitano di assistenza medica infermieristica e riabilitativa a tempo pieno sono passate in Italia da 296 mila nel 2017 a più di 360 mila nel 2022, con un boom nel periodo post-pandemico. Nonostante negli ultimi anni siano stati introdotti alcuni interventi come la legge n. 17/2019, volti a prevenire e contrastare il fenomeno del maltrattamento di anziani e disabili adulti nelle RSA, gli studi sull’argomento in Italia sono – quasi un unicum a livello internazionale – ancora praticamente assenti. La prima ricerca è stata svolta attraverso interviste in profondità, gruppi di lavoro, focus group e osservazione partecipante. La seconda ricerca di cui si riportano i risultati ha coinvolto attraverso interviste in profondità 80 familiari che hanno vissuto la pandemia e il periodo post pandemico con i loro congiunti anziani e disabili ricoverati in RSA. La grandissima parte degli operatori intervistati ha ammesso di essere stata protagonista o di avere assistito con regolarità nel corso delle proprie attività lavorative quotidiane a episodi di maltrattamento psicologico emotivo e di trascuratezza. I fattori che contribuiscono ad aumentare i rischi di maltrattamento nelle RSA sono, come rilevato in letteratura, plurali. Oltre che a contrastare le forme più manifeste di maltrattamento, è necessario avviare dunque una seria riflessione sui maltrattamenti meno visibili e che prendono forma nella vita quotidiana delle strutture in quanto connaturati, non solo e non tanto ai sistemi di finanziamento, ma ai modelli e alle culture dominanti di cura e assistenza.
Pagine | 447 - 459
DOI | 10.1401/9788815412584/c20
Ranieri Zuttion
L’abitare inclusivo: un approccio di governance per politiche trasformative
Il momento storico che i sistemi di welfare stanno attraversando vede l’affermarsi e il diffondersi di un nuovo approccio culturale, fondato sulla partecipazione attiva della persona con disabilità (e della sua famiglia) alla realizzazione dei servizi sociali e sanitari che la riguardano; in questo processo la personalizzazione degli interventi assume una rilevanza centrale. Una delle questioni fondamentali nelle strategie di personalizzazione dei servizi di welfare è come transitare da una dimensione sperimentale a un cambiamento che abbracci tutto il sistema dei servizi e interventi socio-sanitari. Per un’effettiva diffusione e sistematizzazione di questa pratica è stato necessario affrontare una pluralità di questioni che rivestono una particolare importanza: le modalità con cui vengono garantite le risposte alle esigenze di carattere abilitativo, riabilitativo o assistenziale; le strategie per gestire gli aspetti di sostenibilità economica; lo sviluppo di coerenti strumenti amministrativi e professionali; i sistemi informativi e le metodologie di valutazione dei risultati in termini di attivazione di risorse e contesti attorno alla persona che portano a una vita di qualità. È necessario ripensare i sistemi di accreditamento quando si tratta di realizzare interventi che non hanno la caratteristica della risposta meramente tecnica, ma si configurano come realtà che si integrano nei percorsi esistenziali delle persone e che anzi devono sostenerli nel loro potenziale di sviluppo. È possibile affermare, in conclusione, che «Abitare inclusivo» ha permesso con chiarezza di comprendere quali siano le direzioni verso cui avviarsi e su quali livelli agire per dare azione a quanto viene chiesto dalle norme nazionali e internazionali. È necessario sviluppare una governance multilivello, che sia in grado di attivare politiche basate sulla conoscenza del territorio.
Pagine | 463 - 472
DOI | 10.1401/9788815412584/c21
Natascia Curto
Welfare multicentrico e di prossimità
Per quanto sia formalizzata con l’inserimento in una struttura residenziale, l’istituzionalizzazione non costituisce un evento puntuale, ma è frutto di processi che si dipanano nel tempo. Per le persone con disabilità i vettori ordinari della partecipazione sociale incappano in barriere. Lungo tutto l’arco della vita, fin dall’infanzia, esse esperiscono contesti non accessibili, modalità di funzionamento attese troppo differenti da quelle tipiche, costi logistici, culturali ed economici della partecipazione molto più elevati rispetto agli altri cittadini. Talvolta le persone con disabilità riescono a resistere al graduale svuotamento della partecipazione sociale. Alla luce del legame tra esiti istituzionalizzanti e inaccessibilità dei contesti, appare evidente che un sistema di welfare orientato al contrasto dell’istituzionalizzazione sia primariamente chiamato a disegnare nei territori nuove direttrici di partecipazione e cittadinanza. È, dunque, obiettivo primario del sistema di welfare innescare meccanismi capaci di contrastare la progressiva differenziazione delle direttrici di inclusione, sostenendo le persone con disabilità nell’accesso sistematico e lungo tutto l’arco della vita alle molteplici dimensioni della cittadinanza. Un nuovo sistema deve dotarsi di meccanismi in grado di supportare le persone ad accedere pienamente al proprio mondo sociale, attuale o desiderato, non come ospiti «accolti» con benevolenza dagli autoctoni della cittadinanza, ma come soggetti pienamente attivi e autorizzati ad agire su di esso. Strettamente legato al tema della negoziazione vi è un elemento centrale del welfare multicentrico: le reti. Un welfare multicentrico e capacitante guarda le reti come reti egocentrate, come reti, cioè, delle persone. Per costruire tale modello di welfare sui territori è necessario dunque partire dalla messa in discussione delle modalità attuali di programmazione e gestione dei servizi; è necessario, cioè, ragionare e agire a un livello più alto rispetto a quello in cui di solito i servizi si ridiscutono quando si parla di deistituzionalizzazione.
Pagine | 475 - 499
DOI | 10.1401/9788815412584/c22
Cecilia Maria Marchisio
Il progetto personalizzato e partecipato
Dal punto di vista concreto, il soggetto organizzativo, l’équipe, l’ente, l’istituzione che riceve il mandato di fare progettazione personalizzata partecipata con finalità deistituzionalizzanti è chiamato primariamente a sviluppare alcuni prerequisiti culturali che attengono allo scopo ultimo con cui viene condotta la progettazione e alla funzione che essa assume nel quadro del mandato istituzionale. Nella costruzione professionale del progetto personalizzato partecipato le modalità metodologiche di declinazione diventano potenzialmente infinite poiché sono situate e radicate nelle comunità nonché definite dalle persone in virtù delle loro esistenze, dai loro sistemi di senso e di valori. Tali innovazioni richiedono una profonda innovazione dei processi di partecipazione della persona con disabilità alla costruzione del suo progetto di vita. Strettamente intrecciato con il tema della partecipazione della persona con disabilità alla stesura del progetto vi è quello della scelta. La necessità stessa di accompagnare e sostenere le vite delle persone con disabilità attraverso un progetto personalizzato. Come ogni forma di progettazione, anche quella personalizzata definisce degli obiettivi che si collocano, per definizione, nel futuro. Il futuro, tuttavia, per le persone con disabilità non è una dimensione scontata, ma costituisce un orizzonte da riconquistare. In questa mappa vengono definite, attraverso strumenti di volta in volta disegnati ad hoc, le azioni da svolgere nel progetto, costruite sotto forma di vettori di facilitazione: di azioni cioè volte a modificare le condizioni di partecipazione di quello specifico contesto. La flessibilità organizzativa ha un importante risvolto nelle pratiche poiché, attraverso di essa, si concretizza la possibilità di attivare processi in cui il sostegno che la persona riceve non è condizionato alle scelte che essa opera. Tali modelli di implementazione mostrano che si tratta di una strada ampiamente percorribile nella molteplicità degli scenari di welfare attualmente disponibili. L’eterogeneità che caratterizza il nostro sistema territoriale, infatti, ne definisce anche una preziosa flessibilità a cui consegue la possibilità di definire assetti territorio-specifici che consentono la piena attuazione di tali modelli.
Pagine | 503 - 530
DOI | 10.1401/9788815412584/c23
Fabrizio Starace
Il Budget di Progetto
Il coinvolgimento dei diretti interessati e la loro attivazione nel processo di cura costituisce ormai un principio assodato nelle politiche sociali co-progettate. Il Budget di Salute (BdS) sembra essere uno strumento appropriato, a condizione che venga applicato coerentemente con i suoi princìpi fondamentali. Il BdS, nella sua accezione corrente, viene utilizzato per dare sostegno a un insieme personalizzato di interventi di natura sia sociale che sanitaria, composti e armonizzati da un Progetto terapeutico riabilitativo individualizzato. Quando trasferiti all’area della disabilità, i princìpi del BdS assumono più specificamente la denominazione di Budget di Progetto (BdP), a sostegno di un Progetto personalizzato che include tutte le risorse disponibili. In sintesi, il BdP a sostegno del Progetto personalizzato e partecipato dalla persona con disabilità si pone come contenitore unico e strategicamente orientato di misure e interventi legati alla persona. La pratica maturata a partire dall’applicazione del Budget di Salute mostra che i sistemi di welfare, quando sostenuti da una cornice opportuna, sono in grado di accompagnare le persone nel riconquistare (o conquistare) la cittadinanza.
Pagine | 535 - 541
DOI | 10.1401/9788815412584/c24
Alceste Santuari
Il Budget di Progetto: uno strumento innovativo di partenariato pubblico-privato
Il Budget di Salute intende favorire processi riabilitativi dinamici, personali e individualizzati allo scopo di evitare progettualità statiche con conseguenti rischi di allontanamento dai bisogni reali, dagli obiettivi di salute delle persone e di cronicizzazione dei percorsi sul medio lungo periodo. Il progetto promosso e finanziato dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della salute denominato «Soggetto, persona e cittadino», coordinato dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Azienda USL di Parma, grazie al contributo dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ha prodotto l’elaborazione delle «Linee programmatiche: progettare il Budget di Salute con la persona». In questo contesto, dunque, le Linee programmatiche si propongono di «mantenere la persona nel suo ambiente di vita e prevenire l’istituzionalizzazione». Il Budget di Salute può essere considerato la «piattaforma» attraverso cui è possibile realizzare una più efficace ed efficiente integrazione tra servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, le prestazioni e i servizi in esso contemplati. La Riforma del Terzo settore ha delineato un quadro normativo di favore in cui collocare inedite forme di cooperazione tra organizzazioni non profit ed enti locali. In questo contesto, la missione delle organizzazioni pubbliche non si esaurisce nella sola produzione efficiente dei servizi pubblici, ma implica la definizione e la «gestione» di legami fra istituzioni pubbliche e comunità locali di riferimento. L’articolo 55 inoltre individua nei princìpi di efficacia, efficienza ed economicità gli altri canoni cui le Pubbliche Amministrazioni sono chiamate a conformarsi nell’agire collaborativo. L’affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni cagionati, con il suo comportamento, ai soggetti privati organizzati rafforza il diritto a una tutela piena ed effettiva, anche nei confronti dei poteri pubblici. È nel contesto fin qui delineato che trova una sua propria collocazione naturale il metodo «Budget di Salute», inteso quale processo che sottende, necessariamente, il coinvolgimento, la collaborazione e la responsabilizzazione multilivello di diversi portatori di interesse, i quali sono chiamati a sperimentare schemi e processi di partnership con le aziende sanitarie locali, con lo specifico obiettivo di innalzare i livelli essenziali delle prestazioni e, conseguentemente, incrementare i diritti di cittadinanza.
Pagine | 543 - 559
DOI | 10.1401/9788815412584/c25
Massimiliano Verga
A chi lo chiedo? Proposta per un Punto Unico Informativo sui benefici, le tutele e i servizi a favore delle persone con disabilità e dei loro familiari
Come è noto, uno dei principali dilemmi che attanagliano gli studiosi dei fenomeni giuridici è l’annosa questione relativa al divario che separa la dimensione formale delle norme dalla loro dimensione sostanziale, vale a dire la distanza tra la ratio e gli obiettivi degli enunciati normativi e la loro concreta attuazione. La questione è chiaramente retorica. Talvolta tra le righe, talaltra in maniera più evidente, nel nostro ordinamento convivono infatti diverse previsioni normative che paiono chiaramente suggerire la creazione di un Punto Unico Informativo sulla disabilità. Secondo il più recente rapporto ISTAT in materia, in Italia vi sono oltre tre milioni di persone con limitazioni gravi e tali da impedire lo svolgimento delle abituali attività quotidiane. Comprensibilmente, l’ISTAT osserva le criticità con le lenti di un ente di ricerca chiamato a produrre e comunicare analisi, previsioni e informazioni statistiche. Vale a dire, non indossa le lenti di chi riveste un ruolo decisionale e/organizzativo. Ma le persone con disabilità non hanno l’urgenza di interpellare l’ISTAT, semmai hanno bisogno di parlare agevolmente con le proprie amministrazioni locali, con l’INPS e con le ASL di competenza (o ATS, USL, ASP che dir si voglia). E soprattutto hanno necessità di un luogo, facilmente identificabile e raggiungibile, dove poter manifestare le proprie necessità e verificare se e come queste ultime rientrino nelle previsioni di tutela dell’ordinamento. Resta l’idea che dovrebbero essere i medesimi attori istituzionali a farsi promotori del riconoscimento sostanziale delle tutele, dei benefici e dei servizi in favore delle persone con disabilità e di chi si prende cura, sotto diversi profili, della loro potenziale piena partecipazione alla vita sociale.
Pagine | 561 - 581
DOI | 10.1401/9788815412584/c26
Filippo Venturi
Profili di responsabilità penale degli operatori socio-sanitari. Regressioni giurisprudenziali, progressioni dottrinali
In termini generali, la responsabilità penale può sorgere da un’azione oppure da un’omissione del soggetto agente. Nel primo caso, si parla di condotta attiva (reato di azione o commissivo). Nel secondo caso, invece, di condotta omissiva (reato di omissione o omissivo). Nella materia che ci occupa, a rilevare è soprattutto la nozione di omissione penalmente rilevante. In termini assai sintetici, è opportuno rammentare che gli operatori sanitari sono gravati da una posizione di protezione nei confronti dell’integrità psico-fisica dei pazienti affidati alle loro cure. Preliminarmente, però, è opportuno osservare che, come è ovvio, molti trattamenti terapeutici, sia chirurgici sia farmacologici, anche quando hanno esito fausto possono determinare un’alterazione anatomica significativa, apparentemente assimilabile a una lesione personale. Risulta indiscutibile che lo psichiatra possa, in primo luogo, rispondere se l’evento autolesivo è conseguenza di una sua azione (venendosi a configurare in tal caso una responsabilità commissiva). Si pensi al caso in cui lo psichiatra somministri una dose errata di farmaci, da cui deriva uno scompenso psichico e una conseguente condotta autolesiva del paziente. Con riguardo all’ipotesi in cui l’azione dell’operatore sanitario determina un comportamento eterolesivo del paziente, l’inquadramento giuridico è ancora più complesso. Con riguardo agli atti eterolesivi del paziente affetto da disturbo psichico, invece, la funzione di cura dello psichiatra non pare a chi scrive poter fornire alcun argomento in grado di giustificare la configurazione di un obbligo, a suo carico, di impedire condotte aggressive verso altre persone. Sia consentito peraltro incidentalmente osservare che, anche laddove si volesse aderire all’orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’operatore sanitario è obbligato a impedire gli atti autolesivi ed eterolesivi del soggetto affetto da malattia mentale, comunque l’accertamento di una sua effettiva responsabilità penale dovrebbe risultare estremamente difficoltoso e improbabile. In conclusione, dunque, il rapporto tra salute, libertà e dignità della persona con disabilità (anche) mentale va ripensato. L’integrità psico-fisica è recessiva rispetto alla libertà e dignità del paziente.
Pagine | 583 - 606
DOI | 10.1401/9788815412584/c27
Matteo Schianchi
Esperti di disabilità? Riflessioni sulla formazione in ambito socio-educativo e scolastico
Pur nella consapevolezza che la formazione, intesa come preparazione iniziale per ottenere i titoli necessari per poter ricoprire alcuni ruoli professionali, non possa rappresentare l’unico criterio per comprendere e valutare il lavoro sul campo e i suoi effetti, è innegabile il fatto che questo ambito costituisce, continuamente, un ambito decisivo e strategico. I corsi di studio universitari possono prevedere approfondimenti sui temi della disabilità anche al di fuori di questi specifici corsi di laurea, in base agli interessi e ai temi dei docenti dei singoli corsi9. Inoltre, gli stessi atenei, altre realtà pubbliche in collaborazione con organizzazioni del Terzo settore, associazioni, numerose agenzie riconducibili alla cooperazione o al privato sociale, propongono corsi di perfezionamento, master, ecc.. In via di principio sono più attente ai temi della disabilità le formazioni di scienze dell’educazione e di scienze della formazione primaria, che prevedono insegnamenti obbligatori a riguardo. Anche se sono necessarie delle osservazioni specifiche. Alla possibilità di un educatore di trovare impiego in servizi legati alla disabilità (complessa) corrisponde, sul piano formativo, solo una «prima infarinatura» spesso non sufficiente ad affrontare più propriamente quelle specifiche situazioni. È tuttavia necessario chiedersi come la formazione faccia fronte, non tanto su un senso comune «in ingresso» deficitario in merito alla laboriosa articolazione legata ai temi della disabilità (specie delle condizioni più complesse), ma come affronti formativamente quest’ultima fornendo culture, strumenti concettuali e operativi utili per affrontare, sul piano della conoscenza ancor prima che della pratica professionale, la disabilità. Siamo ancora in una fase sociale, culturale e formativa in cui è necessaria una preparazione specifica, approfondita, accurata delle questioni della disabilità. Anche dagli esiti di questi percorsi formativi dipende il grado di preparazione e di consapevolezza dei futuri professionisti di alcune questioni decisive, soprattutto alla luce delle dinamiche, brevemente delineate, a cui è poi sottoposta nel mondo professionale.
Pagine | 609 - 619
DOI | 10.1401/9788815412584/c28
Gilda Losito
Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e disabilità. Nuove forme di limitazione della libertà personale
Nell’ultimo decennio, a seguito di alcune emergenze che hanno caratterizzato il Paese, il problematico rapporto tra le libertà individuali, la legittimità della loro compressione, seppur temporanea, e gli interessi della collettività è emerso sempre più chiaramente. Il mandato del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale discende da un complesso di regole derivate da Trattati e Convenzioni internazionali. sul piano internazionale l’ampiezza del mandato del Garante nazionale sulle strutture residenziali dedicate alla cura e all’assistenza delle persone con disabilità discendeva dalla ratifica della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (CRPD). Da quanto fin qui esposto si evidenzia che l’attività di monitoraggio del Garante nazionale non si esaurisce nelle visite a luoghi che, per atto formale, sono legittimamente deputati a limitare il movimento delle persone e a definire le modalità di tale limitazione. Il Garante nazionale durante i suoi monitoraggi realizza un lavoro complesso e multifocale, volgendo uno sguardo interpretativo di valore scientifico diverso da quello di qualsiasi altra ricerca. Un mondo protettivo, di cure e di assistenza o di riabilitazione, con una varietà di servizi che risponde a una gradualità di attività più o meno inglobanti o discontinue, più o meno intrusive nella sfera della persona. L’asimmetria tra operatori e la persona disabile o anziana può portare alla graduale riduzione arbitraria dell’autodeterminazione della persona e alla sua estromissione dal processo decisionale riguardante, ad esempio, la scelta del luogo dove vivere. La finalità del progetto individuale è quella di garantire una vita sociale sulla base di uguaglianza con gli altri e di evitare l’insinuarsi di ulteriori vulnerabilità nella soggettività o di barriere e limitazioni all’esercizio dei diritti delle persone affidate alle istituzioni.
Pagine | 621 - 645
DOI | 10.1401/9788815412584/c29
Luca Fazzi
Linee guida e strategie per la prevenzione e la gestione del maltrattamento in RSA
Come prevenire e gestire il fenomeno del maltrattamento di anziani e disabili adulti nelle strutture residenziali è da diversi anni oggetto di studio in molti Paesi del mondo. Il presupposto essenziale di ogni strategia tesa a prevenire il maltrattamento nelle RSA parte dagli indirizzi e dagli obiettivi che si prefiggono gli enti. Gli obiettivi di prevenzione e gestione del maltrattamento dovrebbero essere considerati a tutti gli effetti obiettivi aziendali. Il maltrattamento è un fenomeno che una volta normalizzato è difficile da osservare. Molte forme di maltrattamento entrano a fare parte delle routine quotidiane e sono interiorizzate come normali pratiche di lavoro. Uno dei grandi problemi della prevenzione, così come della gestione degli episodi di maltrattamento, è rappresentato dalle segnalazioni. La
ricerca empirica rileva una difficoltà diffusa a segnalare i maltrattamenti nelle strutture residenziali causata da diverse ragioni. Quando si assiste a qualche episodio conclamato di abuso è consuetudine individuare la causa nelle cosiddette «mele marce»: operatori che trasgrediscono ai comportamenti professionali e deontologici e che si approfittano della loro discrezionalità per compiere atti di maltrattamento di cui i superiori sono all’oscuro. È opinione condivisa che la probabilità che si verifichino episodi di maltrattamento aumenta anche in relazione al tipo di modello organizzativo. Un ultimo aspetto fondamentale rispetto a cui intervenire riguarda la gestione degli episodi di maltrattamento. Uno dei problemi che si rilevano nella maggior parte delle strutture è che quando viene alla luce un abuso non ci sono regole e sistemi organizzati per prendere in mano le situazioni e il tutto tende a essere delegato a una gestione emergenziale. Un protocollo di gestione dei casi di maltrattamento infine dovrebbe prevedere la possibilità di attivare processi di supporto alle persone maltrattate. Il sostegno alle conseguenze del maltrattamento è dunque una competenza fondamentale da sviluppare e che dovrebbe diventare parte integrante della formazione e dell’organizzazione del lavoro delle strutture residenziali.
Pagine | 647 - 659
DOI | 10.1401/9788815412584/c30
Postfazione
Il cammino della Vita Indipendente non può essere arrestato
Il concetto di «Vita Indipendente» è stato coniato negli anni Sessanta del Novecento in California dal movimento Independent Living, anticipando quindi di una quarantina d’anni le previsioni della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 – che è divenuta legge dello Stato italiano nel 2009 – e ricoprendo, in realtà, un ruolo determinante nei lavori preparatori e nel testo stesso della Convenzione, con una particolare ricaduta nell’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) che, data la sua assoluta centralità e rilevanza, merita sempre di essere richiamato e integralmente: Gli Stati Parte della presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci e adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società,...
Pagine | 661 - 663
DOI |
Gli Autori
Paolo Addis coordina il Centro di ricerca Maria Eletta Martini di Lucca. PhD in Diritto pubblico e dell’economia, si occupa della condizione giuridica delle persone vulnerabili e dei diritti delle persone con disabilità. Daniele Amoroso insegna Diritto internazionale e dell’Unione Europea e International environmental law and policy all’Università degli Studi di Cagliari. È associate editor dell’Italian Yearbook of International Law e country coordinator (con R. Pavoni) del team italiano di reporter dell’Oxford Reports on International Law in Domestic Courts. È componente del Comitato di redazione del Manuale di diritto internazionale applicabile alle operazioni militari, istituito nel 2023 dal Ministero della difesa. Maria Giulia Bernardini insegna Teorie dei diritti umani e Diritto e genere all’Università degli Studi di Ferrara. Si occupa di teorie critiche del diritto, con particolare attenzione a Disability, Elder e Gender Studies e ai temi della capacità legale, della...
Pagine | 665 - 670